Racconto originale – Assunzione di Edoardo Tempestilli

Quel posto sembrava essere il Paradiso in terra. Mai gli era capitato in precedenza di trovarsi in un luogo così stranamente incontaminato. L’unico paesaggio che riusciva a ricordare, infatti, erano i vastissimi boschi che da qualche decennio a quella parte divoravano incessantemente intere regioni, perdendosi e sfumandosi lì fin dove l’occhio sarebbe riuscito ad arrivare. I suoi confratelli si erano impegnati molto per rendere al meglio il processo di dissodamento della foresta che circondava il proprio monastero, dal quale Ulderico era stato sottratto per diretta volontà del vescovo, con il compito tanto delicato quanto ambiguo di gettare le basi della fondazione di un eremo sulle montagne. Quando ogni giorno si alzava per andare a celebrare il mattutino, si domandava quali considerazioni avesse mai fatto l’abate per scegliere proprio lui, un novizio, per quel compito così importante, inciso su pergamena direttamente dalla mano del presule e fatto giungere lì, in comunità, per il tramite di un emissario. Era l’anno del Signore 1016, nel mese di novembre. Quell’autunno si stava mostrando in tutta la sua cromia infuocata, con scheletriche mani arboree innalzate verso un cielo sempre più grigio, premonitore di un inverno particolarmente rigido. Aveva dovuto lasciare il cavallo al villaggio sul fondo della valle, prima di recarsi da solo attraverso quel taglio roccioso che il flusso del torrente aveva ferito nella pietra per millenni e millenni. Non capiva, però, per quale motivo i villani si fossero fatti il segno della croce quando stava per incamminarsi verso quelle vette che nessuno era stato mai in grado di raccontare. Gente strana, pensò, disposta a disegnare sulle proprie anime il simbolo di nostro Signore, mentre presentavano sulle porte delle loro case delle primitive rappresentazioni di quel che apparivano come distorti volti cornuti. Aveva dovuto trascorrere la notte nella locanda del posto, dato il viaggio particolarmente lungo ed estenuante. In qualità di straniero, ancor prima che di religioso, era stato il bersaglio di alcuni pastori, che lo avevano preso di mira per potergli raccontare le leggende del luogo, così come erano soliti fare con ogni sventurato viandante. Si diceva, infatti, come quelle montagne fossero ancora abitate da una strana tribù che venerava antichi idoli, stanziatasi in quei boschi in tempi molto lontani, ben prima che qualche legione penetrasse quelle valli. Solo qualche anno era passato da quando una bambina, nata muta, aveva miracolosamente ritrovato il dono della parola dopo essersi inoltrata nella fitta foresta riuscendo a raccontare, poi, di aver visto una bellissima signora, molto alta, vestita di un lungo mantello bianco che sembrava brillare di una luminosità propria. Molti riconobbero in lei la santa Vergine e fu in quell’occasione che innalzarono un rudimentale crocifisso nella radura al centro del caseggiato. Si era messo d’accordo con alcuni villani, Ulderico, affinché una volta a settimana venissero a trovarlo sulle cime di quei monti per portargli qualche vettovaglia ma, soprattutto, per assicurarsi che stesse bene e non avesse bisogno di null’altro. E s’incamminò. Penetrò in un enorme faggeto, parzialmente sferzato dai timidi raggi di un anonimo sole autunnale. Si addentrava sempre di più, senza una meta precisa, se non quella di trovare un luogo che fosse il più idoneo possibile per la futura erezione di una dimora di Dio. Ad ogni modo, per ogni passo che svolgeva, la vista gli si chiudeva sempre più, soffocata da quel diabolico intrico di rami e tronchi che sembrava rendere in notte il dì. Quando, ad un tratto, gli giunse in mente una sana intuizione. Pur di evitare di perdersi negli abissali meandri delle montagne, decise di ascendere sempre più verso l’alto, fino a quando non sarebbe arrivato nei pressi di quel punto dove la vegetazione inizia a diradarsi per poi dissolversi in vastissimi prati. Se non altro, sarebbe stato anche più facilmente individuato dagli abitanti del borgo sottostante. Salì, giorno dopo giorno, passo dopo passo, sostando di volta in volta ai piedi di un albero, con i cui rami si edificava un rozzo riparo. Durante le notti la temperatura scendeva vertiginosamente e poco gli bastavano la sua cappa monacale e quell’impasto di foglie e fango spalmato sopra di lui. Non riusciva a riposare bene, ma non tanto per il freddo, perlopiù per degli strani rumori che percepiva intorno a lui. Era come se tanti piccoli animali si avvicinassero di soppiatto, incuriositi da quella strana costruzione. Ogni mattino, poi, notava sul terreno inumidito che circondava la sua dimora tanti piccoli solchi, di lunghezza invariabile, ai cui lati erano invece come dei buchi di scarsa profondità. Si ricordò, allora, che i villici gli avevano raccontato di quell’antica e misteriosa tribù e della sua convivenza con il popolo delle fate, strane creature spirituali appartenenti alla loro arcaica religione. Sorrise all’idea di quanto poco bastasse per intimidire la credulità delle persone. Come dei piccoli, indifesi animali, nel lasciare le loro innocenti tracce, potessero essere fonte di miti e leggende.   S’inerpicò, su per il monte, fino a sbucare sull’alta radura di quel versante. All’orizzonte, nere nubi s’addensavano, compattandosi in uno scudo nero. Il sole, un taglio rovente all’orizzonte, dava indizio del suo spegnersi oltre i confini del mondo.  Sopraggiunse la pioggia con una velocità innaturale. E con lei, anche la notte. Vide, non molto distante da sé, ai margini opposti di quel campo pratoso, su un isolato zoccolo di pietra dell’altezza di un uomo o poco più, una grotta. Vi entrò, appena in tempo per sfuggire ad un devastante acquazzone. Si addormentò. E sognò. Sognò se stesso, mentre stava riposando all’interno di quella cavità naturale. Era notte fonda e, fuori, infuriava la tempesta. Ad un tratto, in lontananza, ai margini del bosco, vide delle strane luci dorate, come fossero delle piccole torce, avvicinarsi sempre più verso l’ingresso della grotta. Man mano che queste entità si avvicinavano, Ulderico si rese conto come, a creare quelle luminosità non fossero delle fiaccole, ma delle piccole creature, alte quanto il palmo di una mano, che emanavano una luce propria. Erano dei piccoli esserini mai visti prima in natura: il volto umanoide, con delle piccole sporgenze fuoriuscire dalla testa, come dei piccoli rametti. Non avevano naso, i loro occhi erano piccoli e neri, al posto di quella che poteva definirsi bocca era solo un piccolo solco. Il loro corpicino era completamente rivestito di una selvatica pelliccia marrone, con qualche sfumatura di grigio. Ma ciò che lo impressionò di più, furono dei piccoli zoccoli al posto dei piedi ed una protuberanza posteriore, come una piccola coda. Entrarono avvicinandosi di soppiatto, come stessero studiando quello strano individuo molto diverso da loro e, per questo, considerata anche la sua grandezza, venerato quasi fosse un dio. Ad un tratto, in lontananza, a seguire quella elementale processione, vide una luce bianca, molto più forte di quella emanata dalle creature. Man mano che si avvicinava, essa assumeva sempre più le sembianze di una bellissima donna, molto alta, dalle braccia mostruosamente lunghe, i capelli lunghissimi e biondi, una carnagione inverosimilmente diafana. Sembrava un’apparizione angelica, benché non avesse le ali. Gli occhi erano grandi e nerissimi, dei quali non si riusciva a vedere il fondo. Al posto del naso era un taglio verticale e la bocca risultava mostruosamente circolare. Ella entrò, tendendogli quella che doveva corrispondere ad una mano. Ulderico, nonostante l’incredulità nell’assistere ad una simile processione, provò una strana quiete, quasi una sensazione di sicurezza. Le diede la mano, entrambi uscirono seguiti dalla piccola folla di creature e si dispersero nell’oscurità dei boschi. Di Ulderico non si seppe più nulla. Di lui si perse ogni traccia, nella natura così come nel tempo. L’unica cosa che si prestarono a fare i villani, fu il dipingere sulle loro porte un nuovo volto.  

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